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92 Min. 12. 2. 2025
245 Min. 12. 2. 2025
Continuo a premere il pulsante «pausa», mentre guardo la nuova serie KRANK Berlin. Le ambulanze che percorrono a sirene spiegate la Hermannstraße, dove abito, disturbano la visione. All’ennesima interruzione capisco finalmente che l’inquinamento acustico non proviene da fuori, ma dal mio laptop. Berlino, a mia scusa, detiene il record nazionale di interventi d’emergenza – questo anche perché la città ha una popolazione più povera, più malata e più sola della media. Solo è anche uno dei personaggi principali di questo medical drama, che nella scena d’apertura del primo episodio ci viene presentato nel suo elemento, un altro di mimesi cittadina e cioè la discoteca.
Si direbbe che i creatori di storie, per quanto autoctoni e sgamati, facciano ancora fatica a distinguere tra topoi e cliché e perciò siamo introdotti nella serie berlinese con una sequenza che conosciamo a memoria – sagome danzanti, luci strobo, minimal techno – mostrata dal punto di vista del clubber che, strafatto, collassa. Meno male che è uno del settore, e perciò si può somministrare un cocktail di medicine per riprendersi dai postumi prima di cominciare il turno, caro il nostro dottor Ben. Già. Ma qual è l’effetto desiderato, shock o verismo?
La tentazione di castigare scelte narrative gradasse è forte, ma devo concedere alla serie – ambientata in un ospedale fittizio ma a quanto pare modellato sul famigerato Vivantes di Neukölln – un certo grado di verosimiglianza. Per lo meno nel registro comico. Quando, fortunatamente per un falso allarme, sono finita al pronto soccorso infantile del suddetto ospedale, il pediatra di servizio indossava un outfit denim-su-denim con camicia di Comme des Garçons anziché il camice e con la testa era altrove: forse già là dove avrebbe fatto serata. Del resto era Spätschicht. Come spiegare, altrimenti, il sadismo e il sarcasmo con cui ha condotto la visita al mio bambino di neppure un anno?
James Butler dice che il tema dell’assistenza sia il più sgradito per i politici. In effetti, riguarda le due certezze umane meno popolari di sempre: la morte e le tasse. Inoltre sembrerebbe che stia a cuore solo a due categorie di persone: chi è bisognoso di cure e chi provvede alle cure di qualcun altro. Tutto questo sarebbe dovuto cambiare con la recente pandemia, ma cambiato non ha. In paesi come la Germania o l’Italia, anche se per motivi diversi, nonostante i finanziamenti e le riforme, i costi della sanità aumentano, ma la qualità peggiora per tutti.
Un effetto ovvio e frustrante è il riassunto dell’emergenza in termini economici, che spersonalizza e semplifica i problemi senza dar conto delle loro interconnessioni politiche, sociali, psicologiche. A una rinnovata presenza del tema nelle arti (cito dal mio orizzonte soggettivo The Room Next Door di Almodóvar ma anche Ivo di Eva Trobisch, il memoir di Lynn Tillman Mothercare o il lavoro dell’artista visiva Carolyn Lazard), si accompagna spesso la sparizione nell’opinione pubblica dei dettagli che contano, col risultato che la sintesi sfocia o in un attivismo paternalista («poveri badanti») oppure in una militanza indignata («la salute non è in vendita»). La maggiore presenza della questione assistenziale nella coscienza collettiva occidentale non si è tradotta in un miglioramento dello stato in cui versano i suoi protagonisti. Ma forse ha inciso sulla loro rappresentazione?
Da Buffy all’ospedale
La serie televisiva KRANK Berlin, il film Heldin e il documentario Palliativstation – questi ultimi due presentati alla Berlinale lo scorso febbraio – portano sugli schermi il medical drama nell’era in cui la tragedia si consuma non solo nell’organismo del paziente, ma anche in quello della società che dovrebbe assisterlo. Il setting è anticollettivista, ma la morale, per fortuna, è più incoraggiante, o per lo meno provocatrice: indecisi se usare la carta del voyeurismo, com’è tradizione nel genere, oppure quella meglio spendibile dell’empatia, questi tre lavori finiscono per capitalizzare – talora inavvertitamente – sul valore politico delle storie che raccontano.
I concerti di pentole, mestole e padelle organizzati nelle grandi città per ringraziare il personale sanitario durante il picco della pandemia hanno la stessa qualità ingenua e rasente l’offensivo dei girotondi o delle bandiere per la pace che a inizio Duemila affollavano le piazze italiane in protesta contro lo status quo politico. Azioni più caricate di affetto che di significato, quelle di vent’anni fa avevano almeno la scusa di trovarsi all’inizio del declino neoliberale – che in campo sanitario, in Germania come in altri paesi, ha coinciso con l’applicazione del sistema diagnosis-related group (DRG) alle strutture ospedaliere, che riduce il caso sanitario a un valore economico e con esso anche le risorse, umane e non, che dovrebbero trattarlo. Se qualcuno se lo stesse chiedendo, le riforme appena introdotte e promesse come rivoluzionarie dal ministro socialdemocratico Karl Lauterbach non aboliscono tale sistema ma lo rendono più sofisticato, rendendolo innocuo solo per le grandi strutture che hanno le risorse per implementarlo.
Ma tempo addietro, negli stessi anni in cui Lauterbach faceva il consulente presso l’allora Ministero della Salute, prodotti televisivi come E.R., Grey’s Anatomy, House e Scrubs scacciavano X-Files e Buffy L’Ammazzavampiri dalla prima serata, rimpiazzando il paranormale con… l’ospedale (una che li ha uniti c’era già stata: The Kingdom di Lars von Trier). Pur con le loro specificità non sempre allineate a un’idea di incrollabile autorevolezza, pur deviando ogni tanto dal modello del dottore-dio (vedi le idiosincrasie di Dr. House o lo stato subalterno dei tirocinanti di Scrubs), queste serie televisive si basavano sulla premessa, condivisa dalla percezione del cittadino-spettatore, che il personale medico avrebbe fatto tutto ciò che era in proprio potere per curare il malato. Il principale ostacolo alla salvezza del paziente era il paziente stesso, la sua malattia.
Attraversando le porte scorrevoli del pronto soccorso al berlinese, al ospedale KRANK tira tutta un’altra aria: non solo quella post-pandemica o inquinata, che ha esteso il senso di emergenza anche ai sani e ai non badanti, ma anche quella indifesa e intima che, nota Jamieson Webster, ci connette gli uni agli altri. Inevitabilmente e nostro malgrado, senza barriere, procedure o gerarchie che tengano. Questo lo sanno bene il dottor Ben (Slavko Popadic) e la dottoressa Emina (Safak Sengül), gli infermieri e gli internisti, i soccorritori dell’ambulanza… lo sa pure la nuova dottoressa Suzanna Parker (Haley Louise Jones), giunta dal reparto di geriatria di una clinica di Monaco (!) per prendere in mano la situazione.
In verità i dirigenti dell’ospedale sperano che la nuova arrivata possa aiutarli a salvarsi la faccia: nel caos del primo maggio—giorno che a Berlino vede tradizionalmente maggiori scontri tra polizia e attivisti—è morta una paziente e si stanno ancora cercando i responsabili. Il KRANK è allo sbaraglio, su questo non ci piove: si rubano medicamenti per proprio uso e abuso, si scommette sui pazienti, si scopa nel ripostiglio. Fin qui tutto nella norma. Ma i turni sono doppi, tripli. Gli straordinari infiniti. Le risorse sono insufficienti, i macchinari hanno bisogno della prolunga, l’assistenza informatica – il care del care! – esige i ticket via fax.
Al personale medico succede quello che era capitato al detective hard-boiled col postmoderno: va in crisi. Lo staff di KRANK Berlin è iperteso, solo, confuso, indebolito dal sistema per cui è indispensabile e impotente di fronte alle vere emergenze. Ma a differenza del Philip Marlowe di Robert Altman in The Long Goodbye, difficilmente vedremo un infermiere congedarsi nostalgico, a fine turno, sulle note leggere di una fisarmonica.
Quando la scarsità diventa potere
L’ultimo numero di The Lancet recensisce il servizio sanitario tedesco notando, tra i vari difetti, l’assenza di identità della sanità pubblica, che dal dopoguerra in poi interpreta la salute semplicemente come l’assenza della malattia. Appropriatamente, la prima persona malata che incontriamo in KRANK Berlin è pazza o ritenuta tale perché, nonostante le sue ripetute e insistenti visite al pronto soccorso, non mostra alcun sintomo comprovabile. Ma quale grido d’aiuto ha la precedenza, quello del malato immaginario o quello del medico bugiardo? Quando quest’ultimo fa la sua comparsa nella serie, non posso fare a meno di pensare a una vicenda privata. In seguito a un grave incidente trattato inadeguatamente in un ospedale della capitale, che le lascia in dote seri danni ortopedici e neurologici, un’amica è costretta a una degenza molto complessa e a un lungo periodo di riabilitazione. Quando finalmente ci rivediamo, dopo mesi, mi confessa di guardare, quasi ossessivamente, vecchi episodi di E.R. «Ho bisogno di credere», mi spiega quando le chiedo perché, «che le cose, almeno da qualche parte, qualche volta, funzionano».
La sua rabbia è puntuale, diretta a uomini e donne che ha conosciuto per nome e cognome e che hanno mancato di trattarla dignitosamente. Ma la sua disperazione è generica – perché la vulnerabilità in cui si trova la persona bisognosa di cure si disperde nei vari gradi e nelle crepe del sistema che dovrebbe accudirla, diventando anonima, strutturale anziché personale. La responsabilità è condivisa e perciò vaga, distribuita tra le mani che vengono tese o ritratte, delegabile anche per chi la esige.
Da una pandemia all’altra
«C’è carenza di infermieri. Sono iscritto al sindacato. Sono morto di paura», risponde il personaggio di Belize, «ex drag queen e infermiere autorizzato» al perfido avvocato Roy Cohn, quando questo minaccia di denunciarlo. Ricoverato in ospedale e malato di Aids, Cohn è riuscito ad ottenere il farmaco più esclusivo sul mercato e Belize, la cui comunità è devastata dal virus, esige di sottrargli alcune dosi per un amico in condizioni altrettanto gravi. Siamo in Angels in America, magnifica opera teatrale di Tony Kushner del 1992, incentrata sull’altra pandemia che ha testimoniato la necessità di un sistema egualitario che includa prevenzione, alfabetizzazione sanitaria e ricerca scientifica.
Le parole di Belize, in particolare l’ironia dell’ultima frase, condensano il contagioso gioco di ribaltamenti e il delicato equilibrio tra benessere e malessere che esiste all’interno di dinamiche assistenziali disfunzionali, o distorte nella loro rappresentazione. Bisogna pensare a una storia accaduta trent’anni più tardi, lo sciopero degli infermieri della Charité, che nel 2021 riuscì ad ottenere migliori condizioni di lavoro. Il dettaglio più eloquente di questo caso è che, per evidenti ragioni, il personale sanitario non può del tutto abbandonare la propria postazione, soprattutto se d’emergenza. Perciò, decisero, scioperare significava ridurre il numero dello staff a quello più carente di personale delle sei settimane precedenti. Quando il peggio è già successo non si ha più nulla da perdere, ed è allora che – come con Belize – la scarsità diventa potere.
Un’eroina col contaminuti
Scongiurare il peggio in continuazione è il mestiere di Floria (Leonie Benesch), l’infermiera protagonista del film Heldin, della svizzera Petra Volpe, presentato alla Berlinale quest’anno e nei cinema nelle scorse settimane. Ma pur essendo dotata di indubitabile coraggio e resilienza, Floria non è infallibile e, allo stesso tempo, incarna le qualità archetipiche dell’infermiere: «un essere soprannaturale», scrive Gillian Rose nel suo lucido e viscerale Love’s Work, «svolge un lavoro infinitamente buono, e lo fa mettendoci sia l’anima che le sue capacità. Anche lei ha convertito l’angoscia in cura [care]; ma non si è lasciata viziare dalla posizione, dall’illusione di essere lei a decretare il destino». Senza l’hybris del dottore, insomma, anche se chiunque abbia avuto a che fare con veri infermieri sa che sono sbrigativi, spesso scorbutici. Non hanno tempo da perdere. Impegnata nel reparto di chirurgia di un ospedale svizzero, Floria deve dividersi 26 degenti con un’altra collega, perché la terza è malata e quella d’appalto non è stata chiamata. Late Shift, il titolo internazionale del film, allude al vero protagonista. Se la suspense dei medical drama classici dipendeva dal decorso della malattia del paziente, qui la tensione narrativa è scandita dalla ristrettezza del tempo e delle risorse, in primis umane. Si salverà?
Stessa domanda ma soggetti diversi, e la certezza che una risposta negativa oggi è molto più pericolosa di trent’anni fa. Il tour de force di Floria – nella varietà dei casi, nella monotonia e sofisticatezza dei compiti – culmina nella stanza singola del paziente con l’assicurazione privata, un odioso e relativamente giovane uomo d’affari appena informato dell’inguaribilità del suo cancro. Quando lei, costantemente interrotta nel suo workflow da deviazioni e imprevisti, tarda nel portargli una tazza di tè, lui la rimprovera brutalmente, cronometrando la sua prestazione col proprio orologio di lusso. Floria esplode e in un gesto di rabbia getta l’orologio fuori dalla finestra.
Gli eventi successivi spingono Heldin nel reame della finzione, non riducendo però la portata politica della scena. La specialità del caregiver consiste nel lavorare con tempi diversi dato che ogni assistito ha il proprio tempo, ma poiché, come suggerisce James Butler via The Care Crisis di Emma Dowling e Labour of Love di Madeleine Bunting, «le sue mansioni sono ripetitive, slegate da un prodotto e, molto spesso, da un obbiettivo», è una professione percepita come antitetica a «molte virtù principali del capitalismo moderno – novità, convenienza, accelerazione.»
Eliminando il tempo Floria può così, per qualche istante, liberarsi dal parametro che squalifica il suo lavoro e lo rende impossibile. Per quanto sia una fantasia condivisa da tutti i lavoratori, diventa un gesto profondamente sovversivo se chi lo compie è una forza lavoro indispensabile, da cui dipendono – letteralmente – i tempi di tutti noialtri.
La vedete, la luna, lassù?
«Wie ist die Welt so stille / Und in der Dämmrung Hülle / So traulich und so hold! / Als eine stille Kammer, / Wo ihr des Tages Jammer / Verschlafen und vergessen sollt» canta Floria ad un’anziana paziente disorientata, che poi si calma ricordando le parole della ninna-nanna, unendosi al canto. Talvolta il talento è stimolato dalla scarsità: questo può essere vero per chi crea ma non per chi cura qualcun altro. Certo, non tutti coloro che lavorano nel settore sono portati per farlo, però la capacità di confortare è la prima che viene meno quando si lavora sotto stress.
Al reparto di cure palliative dell’ospedale Franziskanus di Berlino, che pure condivide alcuni dei ricorrenti difetti strutturali, il tipo di emergenza è diversa: qui la specialità non è prolungare bensì migliorare la qualità della vita del paziente prima della vicina fine. Paradossalmente, questo si traduce in più tempo e il documentario Palliativstation di Philipp Döring – presentato al Forum della Berlinale e vincitore del Hainer Carow Prize per opere prime e seconde – se ne lascia. In oltre quattro ore, Döring restituisce la complessità della cura palliativa con uno sguardo intimo ma allo stesso tempo discreto, inserendosi nella tradizione observational di Frederick Wiseman (il suo Near Death, del 1989, è un riferimento importante).
Ma sebbene un approccio olistico e interdisciplinare sia già centrale per la medicina palliativa, il dottor Sebastian Pfrang – Oberarzt del reparto e «Virgilio uncredited» del doc – ha davvero il dono di arrecare sollievo, spesso laddove le competenze mediche non bastano. Già la domanda «Cosa posso fare per lei?» posta quotidianamente visitando persone che hanno perso il senso del libero arbitrio a causa della malattia o di iter medici annientati, esplicita i termini della relazione assistito-curante in modo inedito e rigenerativo. Che sia organizzando una risonanza magnetica internamente anziché trasferire una paziente terrorizzata dalla procedura o facendo sparire il singhiozzo a una convalescente afflitta da nausea e tracheotomia con un semplice massaggio, il dottor Pfrang interviene su quello che sembra essere il male minore, alleviando di fatto il dolore.
Nel suo inesauribile Non morire, Anne Boyer scrive: «Volevo raccontare il dolore senza alcuna filosofia. Volevo descrivere un’educazione al dolore e il suo utilizzo politico. Ma in letteratura il dolore per lo più esclude la letteratura. E nelle politiche esistenti il dolore è spesso ciò che ci induce a implorarne la fine. Vero/falso: 1. In filosofia il dolore è una piuma strappata a un uccello. 2. In letteratura il dolore è un indice sottratto al suo libro. 3. Nei film il dolore è un albero, mai la sua scure.»
La sofferenza, di cui la manifestazione corporea è variante infima perché condanna all’isolamento, è indicibile, irrappresentabile. Nelle immagini in movimento si può mostrare il contorno del dolore, il suo simulacro, non la sua realizzazione o significato. Questo limite è compensato dallo sguardo di chi guarda, che può – se stimolato dalla cornice magica dell’opera – colmare la distanza con la propria immaginazione.
Perciò da spettatrice posso solo avanzare ipotesi, ma credo di avvicinarmi abbastanza alla verità quando interpreto una scena di Palliativstation come una testimonianza del fatto che la cura, se impiegata in modo dialettico, è anche un modo di raccontare il dolore – e perciò di alleviarlo. La sequenza mostra uno scambio tra paziente e medico, un dialogo che cattura e allo stesso tempo libera l’astrazione legata alla morte e al panico che ne deriva, che dà conto dell’introiezione solitaria e inevitabile di chi è costretto a considerare questa prospettiva ma anche del fastidio e della comicità che scaturiscono da tutto ciò che non c’entra con quella prospettiva. È un’interazione che – nonostante tutto – ribadisce e convive con la continua e gioiosa presenza del mondo là fuori: «Cosa faccio con tutto questo tempo?» risponde il signor Dickhoff, attaccato a due respiratori, al quesito di rito del dottor Pfrang. «Quale tempo?» – «Il tempo che va così lentamente, tutt’un tratto. Non ci sono abituato. Mi sfrecciava a fianco (…) e adesso, improvvisamente…» – «Non si muove niente» – «Niente».
Tra un soffio e l’altro gli racconta del suo disorientamento, finendo per esprimere il desiderio che tutto finisca al più presto. Quando il dottor Pfrang replica con un commento da vivo, da persona che per quanto empatica e attenta è comunque nel pieno della sua vita e perdipiù è un medico, il paziente chiede retoricamente, con quel poco umorismo che la sua condizione gli permette, «Può mai venir fuori qualcosa di sensato, quando un medico inizia a parlare?». Ridono, ora sono solo due persone che si intrattengono chiacchierando. «Le cose vanno avanti, sempre», conclude il medico accarezzando con rispetto la schiena del signore. Eccola lì, la pressione del tempo, di cui il tocco umano è breve intervallo, un sollievo temporaneo ma essenziale.